La fiducia in me, nell’Altro, nella famiglia, nelle istituzioni… è un sentimento che crea sicurezza, che fa sentire protetti, pensati, custoditi; che ci permette di proiettarci nel futuro, nei legami, di sognare e di provare a realizzare i nostri sogni. Ma è proprio questo che il COVID ha minato: ha reso il nostro contesto di vita imprevedibile, non più sotto il nostro controllo, ci ha messo di fronte ad una sensazione di rischio per il proprio e l’altrui benessere/sopravvivenza fisica (poi psichica), ci ha messo di fronte alla morte, mai vissuta così quotidianamente; ci siamo scontrati con la nostra impotenza, noi che crediamo di essere onnipotenti. Alcuni dati sottolineano come siano aumentati esponenzialmente vissuti di ansia, depressione, smarrimento, stress, tristezza, solitudine, isolamento, rabbia, paura con una differenza tra la prima e la seconda ondata: questa risulta essere peggiore in quanto, non solo viviamo un lutto rispetto alla nostra onnipotenza, ma anche rispetto alla perdita di speranza, alla possibilità di guarigione... Ed è la fascia dei ragazzi più giovani quella che rischia di essere colpita in modo profondo dagli effetti collaterali del coronavirus. Loro hanno perso punti di riferimento: gli amici, i compagni di scuola, la possibilità di uscire, di innamorarsi, di sognare e fare sport in un momento in cui la relazione con l’Altro è fondamentale per la crescita e la costruzione dell’identità.
Ma sarebbe un errore pensare che la “libertà” risolverà tutto e ce lo ha dimostrato l’estate. Alcune persone, infatti, hanno faticato più del previsto e in alcuni casi hanno sviluppato una vera e propria sindrome che prende il nome di sindrome della capanna o del prigioniero, ossia la paura di uscire e lasciare la propria casa, il luogo che per mesi ci ha fatto sentire al sicuro, al riparo da qualsiasi pericoloso agente esterno e che rappresenta il contraccolpo psicologico delle esperienze dei mesi scorsi.
E’ un quadro drammatico perché viviamo in “una bolla di paura” (Mazzacurati), ma, fortunatamente, i molti studi condotti sino ad oggi dimostrano che la maggior parte delle persone esposte a situazioni traumatiche generalizzate sono resilienti e non hanno conseguenze psicologiche o psichiatriche a breve o a lunga durata.
Allora? Senza essere irrispettosa verso coloro che vivono un dolore profondissimo, anzi, proprio per non dimenticare la loro sofferenza, è un tempo che non dovremmo farci sfuggire dalle mani, è un tempo prezioso perché è un tempo che ci ha svelato la precarietà, ma anche l’importanza della vita; è un tempo che ci ha obbligato a riprendere “un pensiero” su noi stessi, sulle nostre relazioni, sui ritmi di vita, sulle nostre scelte. E non mi riferisco solo alla persona, ma anche alle nostre comunità e ai nostri servizi.
“Il nostro sguardo è fisso sul virus e sui suoi movimenti, “ma basta chiudere gli occhi per sentire tutto il resto, come un rumore di fondo” e l’arrivo improvviso della Pandemia “ci ha ricordato che era una follia andare a quei ritmi, disperdere così tanta attenzione e sguardo, smarrire qualsiasi intimità con se stessi, scambiarsi corpi nevroticamente senza fermarsi a contemplare il proprio, vedere molto fino a raggiungere una certa cecità, conoscere molto fino a non capire più nulla”. (“Quel che stavamo cercando”, Baricco).
La pandemia è un richiamo alle nostre responsabilità di adulti; riprendere il nostro ruolo di adulti capaci di trasmettere dei valori, di educare alla vita, di comunità educante!!!
Sarebbe già un grande primo risultato della pandemia. E pensando ai nostri figli, il dramma è la pandemia, ma il vero dramma è se continuiamo ad abbandonarli, a non offrire loro strumenti per affrontare la vita e, quindi, strumenti per affrontare questa pandemia dove il lamento e la recriminazione, a volte, sembra essere l’unico strumento.
“Il lamento non ha mai fatto crescere nessuno, anzi, tendenzialmente promuove solo un arresto dello sviluppo in una posizione infantilmente recriminatoria. Non ci sarà nessuna Generazione Covid a meno che gli adulti e, soprattutto, gli educatori non insistano a pensarla e a nominarla così lasciando ai nostri ragazzi il beneficio torbido della vittima: quello di lamentarsi, magari per una vita intera, per le occasioni che gli sono state ingiustamente sottratte” (Recalcati).
Per me, per noi, la sfida è esserci, è trasformare (non dimenticare) il dolore, la fatica in speranza, in vita. È raccogliere la sfida di Papa Francesco: “La speranza in tempi di Covid è una provocazione” (12 febbraio 2021). E’ dare “senso” e costruire “possibilità”.
Professor Sandro Stanzani
"Quando tutto questo sarà finito..." . Questo è uno dei ritornelli che ha caratterizzato la prima fase della pandemia nei mesi di marzo e aprile dello scorso anno. Una fase alla quale la società civile italiana ha risposto con grande spirito di reazione alla sfida che le si poneva di fronte.
Avendo occasione di analizzare i dati di specifiche indagini condotte su un campione rappresentativo della popolazione italiana è emerso, infatti che al termine del primo lockdown gli italiani avevano aumentato il loro livello di fiducia negli altri in generale. Il 33,5% della popolazione aveva un livello alto di fiducia, mentre in una precedente ondata di rilevazione lo stesso campione alla medesima domanda registrava un livello alto di fiducia nel 25,2% dei casi.
Diverso era il discorso per ciò che riguarda la fiducia nelle istituzioni di qualsiasi tipo dagli enti pubblici, ai sindacati, alle imprese e finanche al terzo settore e alla Chiesa, al termine del primo lockdown si registrava un calo di fiducia rispetto ai mesi precedenti. Si era di fronte ad uno spaesamento e ad una difficoltà ad interpretare la nuova situazione, ma ciò non si è tradotto in forme di pessimismo e in un senso di frustrazione. Anzi, i dati registrano proprio nelle settimane del primo lockdown un deciso aumento dell’impegno civico (si colloca al livello altro di impegno civico il 36,5% degli intervistati, contro il 24,1% della rilevazione precedente) e del numero di ore offerte gratuitamente in favore di estranei. Il virus lanciava una sfida che coinvolgeva tutti quanti. Ciò ha generato una solidarietà diffusa, un riconoscersi tutti sullo stesso piano, e pronti a dare un contributo per affrontare la sfida, nella convinzione che "andrà tutto bene …" e immaginando come sarà la vita “quando tutto questo sarà finito”. Questo era l’orizzonte che disegnavamo davanti a noi, e che ci forniva la motivazione ad affrontare la vita quotidiana.
Ma "tutto questo non è finito" tutto questo è ancora qui e l’orizzonte che disegnavamo davanti a noi si scolora, sfuma i suoi confini, sino a sparire. Ed ecco che i sentimenti e il tono dell’umore cambiano, perdiamo i punti di riferimento. Alla fine del 2020, un’ulteriore ricerca registrava un crollo della fiducia interpersonale generalizzata. Si collocava al livello alto di tale fiducia solo il 16,3% degli intervistati, praticamente la metà rispetto al fine aprile. Chiaro segnale del difficile stato d’umore che l’opinione pubblica sta attraversando e che chiama in causa le nostre capacità di resilienza.
Di fronte allo sfuocarsi davanti a noi della linea di confine oltre la quale “tutto questo” sarà finito siamo chiamati a darci prospettive più prossime ad avvicinare la linea dell’orizzonte collocandolo nella vita quotidiana e nelle situazioni che siamo chiamati a “risignificare”. Risignificare le relazioni più prossime, e quelle più allargate, ovvero risignificare l’impegno civico, la solidarietà, i tempi di vita e di lavoro, il valore delle età della vita.